Il prof. Tarcisio Plebani, Docente di Diritto ed economia presso i Licei dell'Istituto Maria Ausiliatrice di Lecco, in un lettera aperta agli alunni inizia col descrivere il stato d'animo in questo periodo di reclusione, separazione ed esorta nel contempo a guardare con speranza e fiducia al futuro. "Anche il coronavirus - dice il prof - passerà, con la sua scia di sofferenze e di lutti, ma la vita “dopo” sarà tanto più vivibile ed umana quanto saremo capaci adesso di prepararla. E di vivere l’attesa preparando il dopo. Siamo obbligati all’isolamento e all’inattività, ma per non cedere alla tentazione della passività indolente, pensiamo al dopo".
Offre due modi per far fiorire di senso questa fase che sembra di vuoto:
Pensiamoci reciprocamente. Proprio in questa fase di isolamento forzato potremmo abituarci alla autosufficienza, credere che “possiamo stare benissimo da soli”. Sarebbe una trappola, per paura, per pigrizia, per orgoglio, abituarci a fare a meno, a non avere bisogno di altri. Ma come fare se si riducono le possibilità di incontrarci? Pur avendo rivalutato i mezzi tecnologici, che in questo periodo sono un modo di rompere il silenzio, la risposta non sono, se non parzialmente, i social o gli strumenti digitali. Proponendo di pensarci reciprocamente non ho in mente forme di telepatia. Facciamo in modo che le comunicazioni, tecnologiche o meno, scaturiscano da uno spazio di silenzio e distanza che si crea tra di noi, solcato, non riempito, dal pensarci reciprocamente. Così la comunicazione sarà più vera e forse più rivolta all’altro vero, non finalizzata a nutrire il nostro io. Utilizziamo questo momento disorientante per migliorare le nostre relazioni.
Pensiamo. Lo stucchevole ritornello “niente sarà più come prima” sembra una frase ad effetto per dare l’idea di avere rivelazioni importanti da fare sul futuro, ma in realtà spesso nasconde solo il vuoto di una comunicazione mass-mediatica che chiede di occupare i vuoti di pensiero. Invece occorre capire meglio questa fase, la fragilità che rivela nell’impalcatura sociale e nelle identità soggettive, quali vicoli ciechi evidenzia questa crisi e quali cambiamenti suggerisce; quali prospettive si possono aprire e quali chiudere. Con una precisazione: non credo nel determinismo, né storico né fatalistico. Sono convinto che la congiuntura storica fornisce la cornice all’interno della quale i movimenti sociali e le scelte umane possono avere maggiori o minori margini di azione: in ogni caso sono possibili esiti diversi. Spetta a noi pensare quali riteniamo più umanizzanti e quindi auspicabili. Coglierne gli indizi, intravederli, condividerli e percorrerli sono possibilità lasciate alla nostra volontà e capacità di pensare.
Dopo una chiara e dettagliata lettura dello scenario, la terza parte della lettera richiama l'attenzione su quali scelte per il “dopo”? Cosa imparare da questa fase drammatica? Si può pure non imparare niente, restare sordi e proseguire come prima, in modo inadeguato rispetto alla situazione che nel frattempo è cambiata. Una crisi, però, indica sempre un giudizio, non bisogna lasciarsi ingannare da profeti apocalittici che riempiono i social quanto più si svuotano i cieli. Non è un giudizio che dall’alto cade sugli uomini. È un discernimento che gli uomini dovranno esercitare sui segni dei tempi.
Per rispondere a quali scelte per il dopo il prof delinea alcuni punti decisivi che potrete leggere nel testo completo.
Abbiamo una grande opportunità. Far diventare il XXI il secolo della fraternità e dare compimento alle altre due parole sorelle che lasciate da sole qualche disastro nella storia l’hanno combinato. Questa pandemia ci ha mostrato che nessuno nel mondo odierno riesce a isolarsi dagli altri e tanto meno a salvarsi da solo, anzi della relazione con l’altro abbiamo radicale bisogno: non c’è vita collettiva che in una dimensione di <esilio> e di cammino”. Incamminiamoci. Perché, ripeto, la globalizzazione richiede che trasformiamo il XXI secolo nel secolo della fraternità, altrimenti ci distruggeremo da soli: non sarà il coronavirus…,